Le Zattere, Venezia: un punto d’incontro, un tappeto sull’acqua, da sempre passaggio o sede permanente di personaggi celebri, attori e comparse, appartenenti al mondo artistico. E proprio in questo luogo, baciato dal sole cocente, si è inaugurato nei giorni scorsi un evento articolato in due mostre: al Magazzino del Sale, per la prima volta, sono stati raccolti assieme 16 progetti dell’architetto-designer Aldo Rossi, suddivisi tra studi e schizzi architettonici, modelli di approfondimento e per concorsi, disegni, oggetti di scena o riguardanti il tema teatrale e le sue diverse articolazioni sia in architettura che nel design. L’esposizione, dal titolo “Teatri 1964-1997”, prende avvio da un progetto artistico-culturale del critico Germano Celant, che ne è anche il curatore; ed è realizzata dalla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, in collaborazione con la Fondazione Aldo Rossi e il Museo MAXXI di Roma.
Pochi passi più in là, negli spazi della Fondazione intitolata al grande pittore veneziano, si trovano invece tre dei cinque cicli, per la prima volta insieme, e alcuni Plurimi/Binari singoli di Emilio Vedova, riuniti nella mostra dal titolo “Lacerazione. Plurimi/Binari ’77-‘78”, curata da Fabrizio Gazzarri, direttore Archivio e Collezione della Fondazione Vedova, che lavorò con l’artista per oltre trent’anni. Accompagnano tali percorsi artistici un elegante catalogo ricco d’ immagini dedicato a Rossi, con testi di Celant e Alberto Farlenga, edito da Skira, e una sobria brochure della casa editrice Antiga, che racchiude il breve ma corposo spazio dei Plurimi/Binari di Vedova.
Entrambe le mostre rimarranno aperte fino al 25 novembre (orario 10-18.30, chiuso il martedì), anche in concomitanza con un altro prestigioso evento, la Biennale di Architettura, perché “l’idea di relazionarsi alle condizioni contestuali della città da parte della Fondazione Vedova non è un caso” – ha spiegato Celant – “per cui ci sembrava giusto dare una lettura in parallelo di come la Fondazione vede un altro tipo di creatività, l’architettura”. Tra gli obiettivi dell’istituzione risulta infatti essere rilevante mantenere sempre vitale l’opera di Vedova, anche attraverso la lettura culturale e sorprendente delle opere dell’artista, paragonate a quelle di altri autori del panorama culturale mondiale.
Come ha affermato il Presidente della Fondazione Vedova, Alfredo Bianchini, “mostre così non s’improvvisano” ed è per questo, che innumerevoli sono gli addetti ai lavori, che compaiono nel backstage della prima esposizione dedicata a quella che è stata per Rossi la struttura più studiata, più amata e più discussa nel corso della sua carriera: il teatro. In tale contesto spicca la figura femminile, elegante e raffinata, di una collega del milanese Rossi, Gae Aulenti, cui è stato affidato l’allestimento. Dopo aver fumato una delle tante, lunghe e fini sigarette, con il suo fare sobrio e raffinato, l’architetto si presenta in conferenza stampa raccontando della sua amicizia con Rossi e del suo ruolo all’interno dell’organizzazione della mostra.
Siamo alla fine degli anni ’50 nella redazione della rivista “Casabella”, diretta dall’architetto triestino Ernesto Nathan Rogers, dove sta per terminare la vera palestra formativa uno dei più magici e sognanti architetti italiani: Aldo Rossi. Lì, il “narratore di forme” incontra “l’architetta” di origini udinesi e pugliesi, Gae Aulenti, che immediatamente avverte un pizzico di misoginia nei propri confronti. Oggi lei ricorda Rossi, di cui divenne profondamente amica, accettando il compito di allestire questa mostra al Magazzino del Sale, in “uno spazio di una difficoltà totale”. “La sua struttura” spiega Aulenti “seppure molto ben interpretata da Renzo Piano, cui Vedova era molto legato, presenta infatti delle pareti inclinate, che ne rendono più arduo l’allestimento e al contempo ne fanno un luogo atto a una continua rilettura, che genera sempre differenti interpretazioni”.
Il soggetto del teatro nel lavoro di Rossi appare come un elemento dai molteplici aspetti, comprensibili già dai disegni preparatori “che sono una combinazione, una ‘jam session’ di materiali, dove compaiono gli oggetti, le fantasie da bambino, i giocattoli, tutta una serie di elementi molto creativi e fondamentalmente artistici” spiega Celant, il quale, quando negli anni ’80 conobbe Rossi, colse immediatamente “la sorprendente visualità creativa dell’architetto: un innesto di materiali non compatibili nel mondo dell’architettura o strani nella storia dell’arte contemporanea”. “La mostra – ha proseguito Celant – “nasce da questo stare insieme e suonare un’orchestra libera di jazz architettonico e visivo di elementi”, in cui lo spettatore potrà comprendere l’esposizione, passando dai disegni tecnici alla presenza di oggetti surreali, come in una partita di ping-pong, dove si mescolano la decostruzione architettonica, il bizzarro, il creativo e l’innesto dadaista di Aldo Rossi.
Rappresentativo è il modello del “Teatro del Mondo”, esposto grazie a una ricostruzione del modello che
Rossi propose per la Biennale del ‘79: una struttura galleggiante, che partì dalle Zattere e proseguì fino a Dubrovnik, in cui legno e ferro creavano la sede surreale adatta per seguire uno spettacolo teatrale. Il teatro è per Rossi un tema che ritorna sempre in almeno una parte di tutti i numerosi progetti che egli creò: ed è per questa ragione che Alberto Farlenga nel catalogo parla di ‘ossessione’ o di una ‘teatralizzazione diffusa’, che percorre le opere dell’architetto.
Nella sede della Fondazione, nell’ex squero cinquecentesco dove Vedova lavorò per tanti anni e creò il ciclo Lacerazione, è presente invece “un’opera anomala nel percorso di lavoro e nell’atteggiamento propositivo, energico e aggressivo di Emilio Vedova, creata negli anni ’77-’78” afferma Gazzarri. Al decennio esplosivo ’60-’70 - in cui l’artista aveva ricevuto il Gran Premio alla Biennale del 1960, aveva collaborato con Luigi Nono alle scenografie di “Intolleranza”, composto i Plurimi a Berlino e realizzato un concerto di proiezioni di materiali per l’Expo di Montreal del ’67 - seguì un periodo fragile, nel quale non dipingeva più di tanto, ma si confrontava con altre tecniche. Dopo un viaggio in America, “riprese la pittura con le strutture portanti della sua poetica” racconta Gazzarri “quali il frammento e l’immersione nelle problematiche del sociale e del politico, aggravata da un serio problema di salute”.
“In questa mostra ‘secca’ ” prosegue Gazzarri “Vedova ritorna con i Plurimi: dei pannelli asimmetrici in legno, in gruppi di 2 o 3, scorrevoli in parallelo su binari in acciaio estremamente potenti, che si muovono, però non si toccano. Ma la forza espressiva che traspariva a Berlino nei Plurimi degli anni ’60, qui non c’è più. Anche se si tratta di un ciclo di opere poco conosciuto di Vedova” conclude il curatore “l’artista è andato in profondità dentro la sua natura, anche di uomo. E, come diceva in un suo scritto Valery, quando l’artista elimina il colore, lasciando solo il bianco e il nero, ciò accade per la necessità di andare a pescare chissà dove una possibile verità”.
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