Il richiamo di Goran Bregovic raggiunge giovani e meno giovani. Chi è arrivato per ballare, chi per ascoltare quietamente il concerto, chi per fare entrambe le cose. È quindi un pubblico molto vario quello che rimane spiazzato a sentire i primi suoni dei fiati della Orchestra for Weddings and Funerals, pur vedendo il palco ancora vuoto. Il concerto infatti inizia quasi in mezzo alla folla, con la band che esce dalle mura del castello e si dirige, come in una sorta di processione, verso il palco. Dopo questa introduzione Bregovic fa il suo ingresso in scena. Vestito bianco e chitarra elettrica blu (elettrico) in tinta con le scarpe. Due parole con il pubblico, poi un pezzo dal suo ultimo album (“Alkohol”, uscito nel 2008) e infine una botta di energia con la celebre “Gas-Gas”.
Da qui in avanti il concerto prosegue spaziando lungo tutto il repertorio del musicista bosniaco. La band che lo accompagna sul palco è formata da ottoni gitani, polifonie della tradizione bulgara, percussioni, archi e cantanti tipici della Chiesa Ortodossa. Una fusione di suoni e culture che affonda le radici in quella Sarajevo che fu teatro dell’infanzia di Bregovic. E poi c’è la sua chitarra elettrica, a traghettare la tradizione nella contemporaneità. Si legge sulla biografia online dell’artista: «Echi dai matrimoni ebraici e gitani, canti della Chiesa Ortodossa e di quella Cattolica, invocazioni musulmane. La sua musica viene da quella terribile frontiera in cui per secoli Cattolici, Ortodossi e Musulmani si fecero la guerra e vissero insieme». Questa varietà di soluzioni musicali può produrre effetti opposti, ora obbligando il corpo a muoversi e ballare, ora immobilizzandoci al cospetto di una profondità sonora struggente. Matrimoni e funerali, tradizione e contemporaneità.
Della guerra Bregovic si prende gioco, quasi a volerla esorcizzare. E allora per introdurre uno degli ultimi pezzi («un canto tipico della prima guerra mondiale», dice Bregovic) c’è bisogno della collaborazione del pubblico, invitato a urlare la traduzione italiana del titolo - «all’attacco!» - prima dello scatenarsi di archi, ottoni e percussioni. Per chi conosce un po’ il repertorio dell’artista questa non è certo una novità. A partire dalla colonna sonora di “Undergound” (regia di Emir Kusturica e Palma d’Oro a Cannes nel 1995), dove la distruzione della guerra è vista attraverso la lente del grottesco e del paradossale. I pezzi da qui estrapolati sono i più attesi e a loro è riservata la coda della scaletta. Ecco allora partire “Mesecina”, che nella testa di molti avrà certamente invocato il girotondo ubriaco e danzante di Marko, Petar e Natalija, inquadrati dal basso, abbracciati e con le teste giunte. Poi, in chiusura, il pezzo forte “Kalashnikov”, turbine nonsense di parole e suoni di fronte a cui è impossibile rimanere fermi. La degna conclusione per un concerto che ha alternato momenti di divertimento allo stato puro ad altri più profondi. Prima del gran finale c’è stato anche il tempo di un immancabile omaggio all’Italia, con l’apprezzata versione di “Bella Ciao” in chiave balkan.
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