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Le rivolte turche di Gezi Park. Un’analisi storico-politica

Lo scenario che fa da sfondo alle manifestazioni in Turchia

Di . Pubblicato in Mondo, News, Politica ed Economia

Pubblicato venerdì 7 giugno 2013

Il 26 maggio alcuni ambientalisti si sono riuniti al Gezi Park di Istanbul, Turchia, per protestare contro la decisione del governo di distruggere il parco e costruire in quella zona un centro commerciale. Il 31 maggio sono avvenuti i primi scontri con la polizia che ha tentato di cacciare i manifestanti, ribattezzati Occupy Gazi Park, dando fuoco alle loro tende e utilizzando spray urticanti.

Le proteste di Gezi Park a Istanbul.

In breve l’ondata di protesta è dilagata in tutto il Paese e si è trasformata in manifestazione anti-governativa. Migliaia di persone sono scesi nelle strade di Ankara, Bodrum, Antalya. Il luogo simbolo è diventata Taksim Square (dove si trova Gezi Park) che i manifestanti hanno riconquistato dalla polizia e occupato il primo giugno. Sul banco degli imputati è finito il premier Tayyip Erdogan, considerato dai manifestanti un dittatore fascista. Sembrerebbe una normale cronaca di una protesta ambientalista come ne succedono molte nel mondo. Non è così. Dietro le istanze ecologiste si nascondono rabbia e sofferenza nei confronti del governo di Ankara, accusato di portare la Turchia ad una deriva islamista.

Ma come si è arrivati a questo? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro e comprendere la storia della Turchia. Dopo la Prima Guerra Mondiale e la guerra civile che seguì, nel 1922 il gruppo di nazionalisti guidato da ex-giovani turchi prendono il potere e imprimono un radicale mutamento a quello che al tempo si chiamava Impero Ottomano avviando un processo di occidentalizzazione. Il sultanato viene abolito e vengono abbandonate la religione islamica, le antiche tradizioni e il multiculturalismo, trasformando la Turchia da uno stato inclusivo ad uno esclusivo. E’ in questo periodo che avviene il genocidio degli armeni, cominciato in modo sistematico già nel 1915. La nuova Turchia doveva diventare uno stato laico, secolare, nazionalmente turco. Solo così sarebbe diventata quella nazione forte che desideravano i nazionalisti al potere.

A guidare questo processo di riforme è Mustafa Kemal, soprannominato Ataturk, “Padre dei turchi”.

Atatürk, considerato il padre della Turchia moderna.

Ufficiale dell’esercito. Non per caso. L’esercito diventerà nella nuova Turchia il principale protagonista, elevandosi a garante dei valori laici ed occidentali. A dire il vero questa tutela secolare non è sempre stata perseguita con strumenti legali. Per decenni in Turchia si sono susseguiti attentati, repressioni e colpi di stato manu militari. Lo spartiacque nella storia turca è rappresentato dalla vittoria alle elezioni del 2002 del partito Akp, Partito della Giustizia e dello Sviluppo, di Erdogan. Per la prima volta un partito di ispirazione islamica, anche se si definisce moderato, raggiunge il potere in un paese laico. Un crescente consenso intorno ad Akp, sostenuto da un incisivo sviluppo economico che avvicina la Turchia alle performance dei Brics, spinge Erdogan a liberarsi dell’influenza dell’esercito, fatto unico nella storia turca. Molti ufficiali, tra cui alcuni generali sono attualmente sotto processo o imprigionati, spesso con montature ad hoc, rivelano alcuni.

Un duro colpo viene inflitto anche all’informazione: molti giornalisti sono stati arrestati o processati e la libertà di espressione viene limitata. Erdogan liberatosi del laico controllo dell’esercito e delle forme di dissenso avvia una serie di riforme di segno conservatore-islamico. Nel 2008 viene abrogata la legge che vietava agli impiegati pubblici di indossare vestiti che fossero anche simboli religiosi, come ad esempio il velo per le donne. Il governo ha poi cercato di limitare comportamenti considerati moralmente inaccettabili come mostrare le gambe femminili nelle pubblicità e addirittura baciarsi nella zona della metropolitana di Ankara. Di recente è stata approvata una legge severissima sulla vendita e il consumo di alcol che ha portato il giornale laico Milliyet a scrivere che “l’islamismo moderato dell’Akp ha dimenticato la sua componente democratica e sta portando il paese nella direzione di una sharia moderata”.

Le dure repressioni della polizia turca contro i manifestanti.

Le manifestazioni di questi giorni sono dunque da ricollegare non ad istanze ambientaliste ma ad una dura polemica contro lo strisciante islamismo del paese. Le migliaia di persone scese in piazza per manifestare fanno molto probabilmente parte della società cittadina turca, più legata ai valori laico-occidentali e vicina al partito maggiore di opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo e alla destra nazionalista e statalista. La popolazione della campagna è invece più filo-governativa e filo-islamista. La miccia che ha fatto scoppiare le proteste è stata la decisione del governo di trasformare un parco secolare come Gezi Park in un centro commerciale nelle cui vicinanze verrà eretta una moschea. Il simbolo, per certi versi, del governo Erdogan. Fully modern fully religius. Così lo definiscono alcuni accademici di Ankara. La protesta ambientalista si è quindi velocemente trasformata in manifestazione anti-governativa e circa 11mila persona sono scese in strada per chiedere le dimissioni del premier.

La repressione è stata molto dura. Purtroppo quattro ragazzi hanno perso la vita e più di 4000 sono state le persone ferite. Difficilmente Erdogan lascerà la guida del paese. Il leader dell’Akp è uomo forte, autoritario e non ha nessuna intenzione di abbandonare il suo progetto di una Turchia rilevante sia nella regione mediorientale sia soprattutto sul piano internazionale. A prescindere dalle decisioni del premier lo stato turco ha bisogno di stabilità per non generare ulteriore caos in Medio Oriente. Il ruolo della Turchia nella guerra civile siriana è fondamentale. Accoglie circa 290mila rifugiati siriani ma soprattutto sostiene l’opposizione al regime di Al-Asad consegnando armi ai ribelli. L’ostilità nei confronti di Damasco si spiega non tanto con motivi umanitari, ma si inserisce sullo sfondo di una lotta per la leadership della regione. Una sconfitta di Al-Asad, di religione alawita (vicina al sciismo), vorrebbe dire per l’Akp, di ispirazione sunnita, impedire che si formi un blocco sciita tra Siria e Iran mettendo così in una posizione di debolezza la Turchia. Le manifestazioni di questi giorni hanno segnato indubbiamente la prima sconfitta politica per Erdogan e il suo partito AKP dal 2002, ma una situazione di instabilità del paese, a prescindere dalle soluzioni che verranno prese, potrebbe rappresentare una sconfitta per l’intero Medio Oriente.

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