Questa settimana il premier turco Recep Tayyp Erdogan si è recato in visita a Bruxelles per riprendere i negoziati di adesione della Turchia all’Unione Europea. Per i due partner è stata un’occasione per far il punto sulla difficile situazione che sta vivendo la Turchia, tra un governo in crisi di legittimità dopo gli scandali di corruzione e una magistratura minacciata dall’esecutivo a seguito delle indagini cominciate a metà dicembre scorso.
Questo ultimo aspetto preoccupa i leaders europei e rischia di mettere in pericolo il proseguo dei negoziati in quanto viola i criteri politici che erano stati fissati per l’adesione della Turchia, tra questi il rispetto delle leggi e l’indipendenza della magistratura. La scorsa estate l’Unione Europea si era espressa favorevolmente sui progressi fatti dal governo turco nel campo della giustizia e aveva lanciato dei segnali di apertura per l’adesione, nonostante il riserbo espresso da alcuni Stati membri, in particola Francia e Germania. Se la repressione di Gezi Park non aveva di certo aumentato le quotazioni turche, gli eventi degli ultimi mesi hanno fatto precipitare la fiducia delle istituzioni europee nei confronti della Turchia. A preoccupare l’UE sono le purghe subite dalla magistratura dopo gli scandali di corruzione che hanno colpito il governo e il partito AKP del premier Erdogan e la riforma della giustizia che in questi giorni è in discussione al parlamento turco: il provvedimento mette il Consiglio Supremo dei Giudici e dei Procuratori sotto il controllo dell’esecutivo. Tra i valori su cui si basa l’Unione Europea ci sono lo stato di diritto e la separazione dei poteri, dunque la preoccupazione di Bruxelles è legittima, espressa anche dal Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy: “Abbiamo ribadito che la Turchia in quanto stato candidato è impegnata a rispettare i criteri politici fissati per l’adesione, compreso il rispetto per la legge e la separazione dei poteri. E’ importante non tornare indietro rispetto ai risultati ottenuti, e assicurare che la magistratura sia libera di procedere senza discriminazioni”. Il premier Erdogan non è certo venuto a Bruxelles per cospargersi il capo di cenere, anzi, si è comportato da leader forte come ha sempre fatto e ha difeso la sua riforma: “Se la giustizia si spinge lontano dall’indipendenza agendo in modo parziale, allora si manifesteranno gravi carenze nel sistema. Per evitare le quali spetta al parlamento turco agire in modo da garantire una giustizia indipendente e imparziale”.
Dunque il processo di adesione si è fatto più complicato di quanto lo fosse prima: non c’è solo l’ostilità di alcuni membri dell’UE, a mettersi di traverso ai negoziati ora ci sono anche i comportamenti interni del governo turco. La Turchia si trova a un bivio, tra est e ovest: seguire la strada di altri Paesi mediorientali instaurando un autoritarismo caratterizzato da profonde tensioni sociali e instabilità interna oppure diventare sempre più europea con governi responsabili e pace sociale. Qualche segnale giungerà dalle elezioni amministrative di marzo e da quelle presidenziali della prossima estate. L’Europa però non può stare a guardare, non può permettersi un ulteriore fallimento dopo quello in Ucraina, le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Bruxelles deve impegnarsi in questi negoziati e utilizzare tutto il suo peso politico per stimolare le riforme necessarie alla modernizzazione del Paese. In prospettiva futura lo stato turco può avere una duplice funzione per l’Europa: da una parte, essere un filtro d’ingresso per l’immigrazione proveniente dall’est del mondo – gli accordi di riammissione firmati tra i due partner a metà dicembre sono un passo in questa direzione – dall’altra, diventare lo sherpa europeo in Medio Oriente a cui delegare ad esso compiti di negoziato e di cooperazione. Una Turchia che non rispetta i principi della democrazia e dello stato di diritto non serve all’Europa, questo è pacifico. Ma una Turchia democratica sì.
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