L’autobiografia di Neil Young, dal titolo “Wanging having peace”, è nelle librerie americane dal 25 settembre scorso. Per l’occasione il mito canadese del rock ha rilasciato un’intervista allo Spiegel, anticipando alcuni dei temi portanti del libro. Certo non poteva mancare un lungo capitolo dedicato al movimento hippie: «ho avuto la fortuna di vivere quel periodo, quando quasi ogni sera c’era una jam-session. Tutti si conoscevano, si aiutavano, c’era una solidarietà hippie che nella cultura attuale è sparita del tutto». E fin qui nulla di strano. I toni cambiano quando Young arriva a quello che da molti è considerato l’apice della controcultura anni ‘60: «non ho mai amato Woodstock neanche un secondo, non c’era nemmeno un backstage e non è neanche vero che artisti come Jimi Hendrix, Grateful Dead e Janet Joplin stavano tutti insieme dietro la scena. A dire il vero, era una cosa penosa, c’erano solo un po’ di cessi e una recinzione che la gente abbatteva regolarmente». Parole che suonano quasi come un’abiura, ma c’è di più. Secondo l’interpretazione di Young, infatti, Woodstock fu l’inizio della fine del movimento hippie. Pochi mesi dopo, nel dicembre del 1969, i Rolling Stones organizzarono un festival gratuito ad Altamont, a cui parteciparono molti degli artisti di Woodstock, tra cui Santana, Jefferson Airplane e lo stesso Young. Quello che mancò fu un adeguato servizio di sicurezza, affidato incautamente agli Hells Angels locali. Il risultato, tragico, fu di continue risse e quattro morti. Il diciottenne di colore Meredith Hunter fu accoltellato dalla sicurezza durante l’esibizione dei Rolling Stones. «Love and Peace si trasformarono in odio e violenza», afferma Young, «Altamont fu come un cattivo viaggio fatto con l’Lsd. Non c’era la minima organizzazione, tutti erano fatti di cattiva droga, gli Hells Angels erano dovunque ed io non vedevo l’ora di andarmene. Abbiamo suonato da cani».
Visto dal backstage, quindi, Young vede i germi della tragedia di Altamont già presenti a Woodstock, sottoforma di mancanza di solidarietà e con la musica spesso lasciata in secondo piano («suonando i ragazzi della band non pensavano alla musica, ma solo a chi li stava filmando»). Certo non mancano interpretazioni diverse dalla parte del pubblico. Ricordiamo quella di Bernard Collier, cronista del New York Times costretto a lottare con la redazione che lo spingeva a enfatizzare gli episodi negativi del festival: «Ho dovuto rifiutarmi di scrivere quella storia se non avesse potuto riflettere in larga parte la mia convinzione di testimone oculare, che “pace e amore” era la cosa davvero importante, non le opinioni preconcette dei giornalisti di Manhattan». E ancora: «Dopo che la descrizione della prima giornata comparve sulla prima pagina del Times, molti riconobbero che caso sorprendente e bello stesse avvenendo».
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12 ottobre 2012 presso 23:22
Articolo molto interessante! Tema da approfondire sicuramente.