Per la terza stagione consecutiva riprende la tournée italiana Magazzino 18 scritto da Simone Cristicchi e Jan Bernas, diretto da Antonio Calenda e interpretato dallo stesso Cristicchi. Lo spettacolo va in scena al Politeama Rossetti, da cui è partita tutta la sua brillante avventura, dal 5 all’8 novembre.
Ci sono spettacoli che lasciano un segno, forte, nei ricordi del pubblico, nel percorso di un teatro, nella storia di un artista e Magazzino 18 è senz’altro fra questi. Scritto da Simone Cristicchi con il giornalista Jan Bernas, Magazzino 18 è stato accolto con tumultuoso successo al suo esordio nel 2013 a Trieste ed ha ripetuto lo stesso esito in tutte le piazze della tournée sia in Italia che all’estero. Tensioni e accese polemiche avevano preceduto la sua andata in scena, che gli applausi scroscianti e unanimi e la commozione della prima hanno saputo spegnere. Dopo una parabola di crescente approvazione nazionale ed estera, la storia degli esodati, ma non solo, Magazzino 18 riprende ora e va in tournée per la terza stagione consecutiva, collezionando un numero di repliche che non è certo consueto nel panorama italiano.
Le ragioni di tanto clamore, sono da ravvisare nell’argomento che Simone Cristicchi ha scelto di trattare servendosi dello strumento del palcoscenico: una pagina dolorosa e controversa della storia del Novecento, quella dell’esodo giuliano-dalmata.
«Sono sempre partito da grandi silenzi: quelli del manicomio, delle miniere, delle guerre mondiali. Dal giorno in cui, due anni fa, attraversai il vecchio portone del Magazzino 18, sono stato ossessionato dal silenzio che respirai lì dentro, tra le masserizie degli esuli in fuga dalla Jugoslavia dal 1947» dice Cristicchi. «L’esodo di italiani cancellati dalla storia. O la vicenda pressoché sconosciuta dei cosiddetti “rimasti”, che fecero la scelta opposta. La guerra di invasione voluta dal fascismo. Poi, le foibe e la strage di Vergarolla, la più grave mai accaduta in Italia. La piccola Marinella Filippaz, morta di freddo nel Campo Profughi di Padriciano nel 1956. Il sogno infranto dei 2000 monfalconesi che credevano in un sol dell’avvenire che poi non è mai sorto, ma si è spento nel lager titino di Goli Otok. (…) Con l’aiuto di Jan Bernas, mi sono immerso nell’umanità sconvolta da questo uragano della Storia, un esodo che le ideologie hanno strumentalizzato fin troppo, un dolore che non può avere un colore politico, ma solo rispetto; una storia che in qualche modo aspettava e meritava di essere narrata e cantata, dopo settant’anni di oblio».
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