Meno appariscente di altri mezzi di trasporto che ebbero il battesimo del fuoco sui campi di battaglia della Grande Guerra, la semplice bicicletta divenne un simbolo importante per la memoria post-bellica, elogiata indirettamente anche da Ernest Hemingway nel suo Addio alle armi, in cui uno dei personaggi, Bartolomeo Ajmo, proclama: “Una bicicletta è una cosa splendida”.
Il vero impulso alla costruzione e alla diffusione della bicicletta si ebbe a metà Ottocento in Europa e, in particolare, in Francia. Attorno al 1875 la bicicletta fu introdotta come mezzo di locomozione militare, seppur con un ruolo marginale, e solo verso la fine del secolo, il 15 marzo 1898, per iniziativa di un giovane tenente dei bersaglieri, Luigi Camillo Natali, venne formata in Italia la prima compagnia sperimentale di bersaglieri ciclisti. A quel tempo i bersaglieri, voluti dal generale La Marmora, erano ormai un Corpo ben organizzato all’interno del Regio Esercito italiano, pensato come un Corpo di fanteria d’assalto, agile e veloce negli spostamenti, che, grazie alla bicicletta, avrebbe abbinato la facilità del tiro con la rapidità dei movimenti sul campo di battaglia. La prima compagnia di bersaglieri ciclisti guidata da Natali ebbe un enorme successo, portando all’evidenza le potenzialità della bicicletta come mezzo militare, tanto da farne un simbolo di questa specialità.
Durante tutta la prima decade del Novecento, la bicicletta da bersagliere - chiamata affettuosamente “carriola” - venne modificata e perfezionata per adattarla alle necessità del Corpo e, poi, alla guerra. Questa bicicletta era del tutto particolare: era dotata di un telaio pieghevole, ottenibile allentando alcuni morsetti, e poi con appositi spallacci poteva essere collocata sulle spalle in poco tempo, permettendo di proseguire velocemente a piedi in caso di necessità, elemento indispensabile in condizioni belliche. Al centro della bicicletta era previsto lo spazio per il moschetto e in uno zaino apposito era collocato tutto l’equipaggiamento di rito. Dietro il sellino c’era il porta-mantellina. All’epoca le gomme erano piene. La bicicletta era stata pensata per essere meccanicamente semplice, così da consentire riparazioni veloci e di fortuna, realizzabili anche in caso non fossero presenti meccanici esperti.
Far parte del Corpo ciclisti dell’Esercito era un privilegio, ma implicava molto impegno, dedizione e forza: questi uomini percorrevano circa 110-120 chilometri al giorno, alla media di 15 chilometri l’ora, da compiersi in 7-8 ore, su una bicicletta che pesava, da sola, 26 kg e che, per i mitraglieri, arrivava a oltre 40 kg a pieno carico. L’arma in dotazione a questi ultimi, la mitragliatrice modello Fiat 14, era divisa su tre mezzi: il treppiede su una bicicletta, l’arma con canna e manicotto di raffreddamento su un’altra, il bidone a pompa per l’acqua sulle spalle di un terzo bersagliere. Era quindi di fondamentale importanza la prestanza fisica, ma anche il gioco di squadra.
Anche il mondo artistico dell’epoca contribuì ad esaltare questo semplice mezzo come un perfetto incontro tra muscoli e tecnologia. Il Futurismo, tutto lanciato nella celebrazione del nuovo, della forza e della velocità, auspicava l’affermarsi di una “civiltà delle macchine”, in cui ben si inseriva la presenza della bicicletta. Molti furono infatti i futuristi, come lo scrittore Filippo Tommaso Marinetti e lo scultore Umberto Boccioni, che parteciparono al conflitto da volontari, arruolandosi nei reparti dei bersaglieri ciclisti. Le biciclette più usate in quegli anni erano delle ditte Bianchi, Carraio, Costa, Rossi Melli. Per dare omogeneità all’interno dell’Esercito, nel 1911 il ministro della Guerra decise di indire un concorso tra le 11 ditte costruttrici nazionali, per scegliere il modello ufficiale. La prova per assicurarsi l’appalto venne eseguita su 3.000 km, in gran parte costituiti da strade polverose e sterrate. Alla fine venne selezionata la ditta Bianchi, produttrice del “modello 1912”, che sarebbe diventato il più famoso tra i reggimenti ciclisti della Grande Guerra.
La ditta Bianchi era nata nel 1885 in via Nirone, a Milano, per volontà del giovane Edoardo Bianchi, fra i primi in Italia ad intuire le potenzialità di questo mercato. Con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, la Bianchi si dedicò alla fabbricazione ad uso militare di motociclette, camion, autolettighe e biciclette pieghevoli e rigide che vennero affidate al Corpo dei bersaglieri: biciclette a gomme piene per la truppa e a gomme pneumatiche per gli ufficiali, che vennero usate durante la guerra sia a Caporetto, sul Piave e sul Monte Grappa, sia nei deserti africani. Nel 1924, quando tutti i Reggimenti bersaglieri si trasformano in ciclisti, sarà adottata l’ultima nata di casa Bianchi, il “modello 23”. Il successo della ditta Bianchi continuò nel tempo, anche dopo il conflitto, e al suo nome rimasero associate le vittorie sportive del ciclista italiano Fausto Coppi (vincitore del Giro d’Italia nel 1940, 1947, 1949, 1952 e 1953). In Italia la bicicletta della Grande Guerra è tutt’oggi legata al nome di due ciclisti, che divennero famosi per le loro gesta e per le lorostorie particolari: il bersagliere volontario Enrico Toti e Ottavio Bottecchia “esploratore d’assalto”, corpo speciale.
Enrico Toti, esaltato presto come il primo “diversamente abile” a scendere in trincea,era nato nel 1882 a Roma, da Nicola Toti, ferroviere di Cassino, e da Semira Calabresi, di Palestrina. Il suo spirito d’avventura si manifestò già in gioventù quando, appena quattordicenne, si arruolò nella Regia Marina, divenendo elettricista scelto. Una volta congedatosi, fu assunto alle Ferrovie dello Stato in qualità di fuochista, ma nel 1908, a 26 anni, gli fu amputata la gamba sinistra in seguito ad un grave incidente sul lavoro. Nonostante la menomazione, Toti sorprese per la sua forza d’animo e la grande passione che lo caratterizzava e che, in seguito all’incidente, indirizzò verso altri interessi. Continuò gli studi interrotti da ragazzo ed iniziò ad inventare oggetti per la vita quotidiana, come una benda di sicurezza per cavalli e uno spazzolino protettore per biciclette, cimeli tuttora custoditi presso il Museo dei bersaglieri di Roma.
Un altro aspetto singolare della vita di Enrico Toti fu la sua passione per i viaggi. Benché fosse privo di una gamba, con la sua amata bicicletta compì traversate in terre lontane e spesso inospitali, che ancora oggi destano stupore considerando quanto fosse difficileviaggiare inquei tempi, anche senza menomazioni. Partì dall’Italia alla volta di Parigi poche settimane prima dello scoppio della guerra di Libia, nel 1911. Arrivò fino a Capo Nord, proseguendo poi fino a Stoccolma e in Lapponia, quindi toccò San Pietroburgo e Mosca, poi la Polonia e ridiscese fino a Vienna, ritornando a Roma nel giugno 1912. Nonostante la scarsità di mezzi finanziari, Toti riuscì sempre a trovare soluzioni efficaci per poter continuare nel suo viaggio. A Stoccolma, per esempio, dove si trattenne più di un mese a causa della neve che gli impediva di proseguire, si procurò di che vivere dando lezioni d’italiano e lavorando come caricaturista in qualche teatro di varietà.
Il secondo grande viaggio che compì, sempre in bici, sei mesi dopo, fu alla volta dell’Africa, fino ad Alessandria d’Egitto e il confine con il Sudan. Avrebbe continuato a dirigersi a Sud con la sua bicicletta, ma le autorità britanniche gli impedirono di proseguire solo, senza scorta e senza carovana, come egli avrebbe desiderato, rispedendolo in Egitto. Qui Toti si esibì al circo, attività che aveva già praticato in vari Paesi presentandosi (talvolta con una gamba di legno) anche con il nome d’arte di Walter. Non potendo procedere oltre in Africa, a malincuore tornò in Italia, dove si dedicò all’industria di lavori in legno, che gli procurò una vita agiata e tranquilla.
Allo scoppio della Grande Guerra Toti presentò la domanda di arruolamento volontario per ben tre volte, venendo sempre respinto a causa della sua non idoneità al combattimento. Decise allora di partire ugualmente per il fronte, dove venne bloccato dai carabinieri. Dopo molte insistenze però, riuscì a restare e a rendersi utile come portaordini civile a Cervignano, facendo la spola con la sua bicicletta tra le prime linee e la retrovia e catturando fucili e munizioni austriache così da poterle riutilizzare. Tra Cervignano, Gorizia, Sagrado e Castelnuovo si impegnò nel controllo dell’efficienza dei fili telefonici, servizio moltoprezioso all’Esercito italiano. Ma seppur coraggiose, le gesta di Toti furono considerate troppo spericolate e pericolose, tanto che il Comando decise di farlo tornare a Roma, per rimanere lì finché non avesse ottenuto una regolare autorizzazione del Ministero della Guerra. Di nuovo Enrico reagì e scrisse al Duca d’Aosta un’appassionata lettera, in cui esprimeva tutto il suo amor di patria e il suo desiderio di combattere per essa, nella speranza “o di morir da eroe per la Patria o entrare fra i primi a Trieste”. Grazie all’interessamento dello stesso Duca d’Aosta, nei mesi successivi Toti entrò a far parte del 3° Battaglione bersaglieri ciclisti e venne schierato in prima linea.
Il 6 agosto 1916, durante la sesta battaglia dell’Isonzo, partecipò con il suo reparto all’attacco di quota 85, a est di Monfalcone. Andando all’assalto di una trincea austro-ungarica, venne ferito ben tre volte, ma continuò comunque a combattere e trovò la forza, prima di morire, di gettare la propria gruccia contro il nemico in un ultimo disperato atto, creando così un’immagine che divenne uno dei simboli italiani della Grande Guerra. Fu decorato il 27 agosto 1916 con la Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria, per iniziativa propria del re. La salma di Toti fu inizialmente trasportata a Monfalcone, ma il 24 maggio 1922 venne trasferita a Roma, dove ricevette solenni funerali. Fu eretto a sua memoria un monumento bronzeo in Roma, nei giardini del Pincio. A questa figura, divenuta oggetto di quel generale processo di mitizzazione che caratterizzò il dopoguerra italiano, ancor oggi centinaia di strade e piazze in tutta la penisola sono dedicate, così come statue e monumenti. Nei Giardini Pubblici di Gorizia, ad esempio, Toti è raffigurato nel momento in cui scaglia la famosa stampella.
Un altro bersagliere ciclista fu Ottavio Bottecchia, trevigiano di Colle Umberto, nato il primo agosto 1894 e divenuto celebre in tutto il mondo per essere stato il primo italiano ad aver vinto il Tour de France, il 22 luglio 1924. Ottavio era l’ultimo di otto fratelli e proveniva da una famiglia di poveri contadini veneti: ebbe un’infanzia difficile segnata dalla fame e dalla fatica. “La mia infanzia – raccontò egli stesso – è stata uguale a quella di tanti altri bambini della campagna italiana. Dovevo aiutare i genitori nei duri lavori della terra. In tutto andai a scuola per due inverni, poiché mio padre volle fare di me un operaio. Così, a 12 anni, divenni apprendista calzolaio”. Fece anche il carrettiere e poi emigrò in Francia, dove lavorò comemuratore.
Allo scoppio della Grande Guerra venne chiamato alle armi e inquadrato come caporale nel 6° Bersaglieri ciclisti di Bologna, assieme al fratello Giovanni, per il periodo di addestramento. Una volta al fronte, venne invece affidato ad un reparto speciale dei bersaglieri, quello degli “esploratori d’assalto”. Fu così che durante la guerra Bottecchia scoprì la sua passione per la bicicletta. In qualità di esploratore pedalava sulle montagne con la mitragliatrice in spalla e gli ordini da portare. Il suo superiore, il luogotenente Gallia, corridore dilettante di Torino, era fiero del suo uomo tanto che ogni tanto organizzava gare tra i suoi soldati, e fu così che Ottavio, eccezionale corridore, iniziò la vera carriera ciclistica ufficiale: “Una volta compii una lunga corsa in bicicletta attraverso la montagna – avrebbe ricordato più tardi - portando sul dorso una mitragliatrice, arma che doveva essere destinata ad un posto di vedetta che ne era sfornito. Quel giorno, mi spinsi attraverso passaggi e mulattiere che solo le capre erano in grado di superare, Galibier o Izoard erano niente. La pesante mitragliatrice a bandoliera poi non alleggeriva certo la mia macchina. Arrivai alla postazione in tarda serata. Il giorno dopo ebbi la gioia di apprendere dal luogotenente Gallia l’utilità del mio raid: gli austriaci avevano attaccato nel corso della notte, e il loro tentativo era fallito grazie alla mia mitragliatrice“.
Per gli atti di eroismo compiuti a Lestans di Sequals, vicino a Pordenone, fu decorato con la Medaglia di bronzo al Valor Militaree, una volta finita la guerra, ritornò a casa in Veneto. Fu un periodo di fame e stenti, finché Bottecchia fu convinto da un amico a tentare la strada del ciclismo professionista, nel 1922, a 28 anni. Inizialmente Ottavio non ottenne i successi sperati e fu quasi sul punto di abbandonare la carriera, quando nel 1923 avvenne la svolta. Un giornalista di nome Borella giunse da Parigi in Italia alla ricerca di ciclisti per accrescere le fila di connazionali (che si facessero pagare poco) partecipanti al Tour de France. Gli fu fatto il nome di Bottecchia e i due si incontrarono alla stazione di Bologna. Si dice che all’incontro Bottecchia si presentò con la sua bicicletta e con la bisaccia del rifornimento corsa ancora intatta e mai consumata dall’ultima gara, contenente i viveri di prescrizione: tortelli di riso, mezzo pollo, marmellata, zucchero. Quando il giornalista gli chiese perché non li mangiasse, lui replicò educato che quei viveri li avrebbe portati a casa sua, in Veneto, dai suoi cari “Cussì i pol magnar calcossa” (così possono mangiare qualcosa). Leggenda o realtà, quel che è certo è che Bottecchia fu reclutato.
Arrivato in Francia per il Tour, fu assegnato come gregario dei fratelli Péllisier: non doveva essere un uomo di punta della competizione, ma solo un supporto, un numero, un figurante. Invece Botescià, come iniziarono a chiamarlo i francesi ammirati, sorprese tutti e dopo solo due tappe arrivò ad indossare la Maglia Gialla, piazzandosi, alla fine, al secondo posto del Tour de France 1923. Questo eccezionale ed inaspettato risultato lo consacrò agli onori della cronaca, sia in Francia che nel suo Paese, rendendolo una celebrità. Ma Bottecchia non dimenticò le sue umili origini e la miseria dalla quale proveniva e con i primi soldi guadagnati comprò cibo e vestiti per tutti i suoi 32 nipoti.
Andò ad abitare in Friuli, a Pordenone (da cui gli derivò il soprannome di Muratore del Friuli), egareggiò anche nel Tour de France successivo, nel 1924, battendo con ampio margine gli avversari nella Bayonne-Luchon, tipica tappa pirenaica con ben cinque colli da scalare. Vinse così il Tour de France, primo italiano nella storia, diventando una leggenda anche in Francia.
L’anno dopo, nel 1925, non ci fu gara per nessuno: Bottecchia portò la maglia gialla dal primo all’ultimo giorno della competizione, guadagnandosi al riguardo il primato assoluto. A Parigi venne incoronato campione per il secondo anno di fila. Ma la soddisfazione più grande per questo uomo semplice non fu la fama, quanto la possibilità di costruire una vita dignitosa per sé e per la sua famiglia: comprò una casa a San Martino di Colle Umberto, dove era nato, assieme a qualche pollo, simbolo di prosperità in quei tempi: “Son diventà sior, tosati…Sior de poder magnar!”(sono diventato un signore gente, un signore da poterci mangiare). Con il denaro ricavato dalle sue vittorie riuscì anche ad avviare una piccola officina per la produzione di biciclette, che portavano e portano tutt’oggi il suo nome.
Nel 1926 fu costretto a ritirarsi alla decima tappa del Tour, maBottecchia, nonostante i suoi 33 anni (tanti all’epoca, per continuare a gareggiare), non cessò di allenarsi per il Tour successivo. Il 3 giugno 1927, però,all’apice della sua fama, venne trovato agonizzante sulla strada a Peonis di Trasaghis, dove oggi sorge un monumento in suo ricordo. Portato immediatamente all’ospedale di Gemona, qui morirà 12 giorni dopo.
Da allora la sua morte è stata avvolta dal mistero, accrescendo il mito di questo uomo ed atleta straordinario. La versione ufficiale parla di un incidente causato da condizioni di salute non ottimali di Bottecchia, che quel giorno volle allenarsi ugualmente, nonostante il caldo. Alcuni testimoni però riferirono che durante la corsa sulle montagne della Carnia, il ciclista si sarebbe fermato in un’osteria di Cornino per bere una birra ghiacciata. Poi, in sella alla volta di Trasaghis, lo avrebbe sorpreso un malore e sarebbe caduto. Bottecchia riportò una frattura alla base cranica, che causò una commozione cerebrale e in poco tempo favorì una meningoencefalite per l’ingresso di microbi nel cranio.
Ma per molti le versioni ufficiali non furono convincenti. Qualcuno parlò di omicidio permotivi politici,un gruppo anarchico rivendicòil gesto e un emigrato in America sul letto di morte affermò di sapere che la morte di Ottavio e del fratello Giovanni, a poca distanza l’uno dall’altro, erastata decisa dalla mafia come vendetta per non aver rispettato un accordo suuna corsa truccata ad Anversa. L’ultima ipotesi emerse dopo la confessione sul letto di morte del vecchio contadino proprietario del campo dove Bottecchia fu ritrovato in fin di vita. Il contadino avrebbe tirato una bastonata al campione perché stava mangiando un grappolo della sua uva.
Quel che è certo, è che la figura leggendaria di Ottavio Bottechia suscita ancora oggi notevoli suggestioni ed emozioni. Ne è prova il recente libro La morte danza in salita. Ettore Schmitz e il caso Bottecchia, scritto dal giornalista Alessandro Mezzena Lona ed uscito in occasione dell’ultima tappa del Giro d’Italia 2014, che si è concluso a Trieste. Nel libro si immagina il detective Italo Svevo impegnato nelle indagini sulla misteriosa morte del ciclista.
Sia per Toti che per Bottecchia la bicicletta non fu soltanto un mezzo di locomozione efficace e sicuro, ma anche uno strumento per cercare di emergere, chi viaggiando, chi gareggiando, dalla dura realtà del periodo di guerra e della miseria che l’accompagnò. Due storie diverse, ma accomunate dal coraggio, dalla forza d’animo e dall’amore per la bicicletta. Le storie di due outsider della società che, anche grazie alle loro biciclette, sono riusciti a conquistarsi un posto d’onore nella memoria patriottica della Grande Guerra e nell’immaginario di molti.
di Serena Cecchinato
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