Al giorno d’oggi, affiancare l’elmetto alla figura del fante viene naturale ed ovvio; nessun esercito priverebbe i propri militari di questa tanto semplice quanto essenziale protezione. Eppure, cent’anni fa, nessuna delle potenze che scesero in campo per dar vita al primo conflitto mondiale, aveva equipaggiato i propri soldati con tale strumento. La cosa sembra ancora più assurda se si pensa che proprio gli anni antecedenti al conflitto videro il sorgere di una tecnologia bellica moderna e sempre più efficace, che fu all’origine edegli armamenti odierni.
In generale infatti, va detto che se le industrie belliche si stavano concentrando (e si sarebbero concentrate ancor più durante la guerra) su strumenti d’offesa sempre più letali, per quanto riguardava l’equipaggiamento individuale non si stavano che muovendo i primi passi, a partire dalle uniformi stesse. Un esempio immediato di quanto detto è costituito dalla semplice assenza di praticità nel carico del fante, per cui nel 1914 ci si trovò con soldati affardellati in maniera simile ai loro colleghi di fine ‘800, con indumenti spesso poco pratici per la moderna guerra di trincea, e talvolta tinti con colori tutt’altro che mimetici; un problema non da poco questo, che solo verso i primi anni del ‘900 si era cominciato a trattare con convinzione presso gli alti comandi. Il povero “Poileu” (nomignolo comunemente assegnato al fante) francese indossò nel primo periodo al fronte giubbe blu e calzoni rossi che risalivano in pratica agli anni della battaglia di Sedan (1870); similmente, solo qualche anno prima dello scoppio del conflitto inglesi, italiani, tedeschi e altri si erano impegnati per risolvere la questione.
Ecco quindi che non meraviglia affatto vedere sui campi della Marna, della Prussia orientale e del Carso, capi coperti da berretti in tela, di cuoio al massimo, totalmente inadeguati alla situazione. Il copricapo, come il resto dell’uniforme, era spesso l’ultimo residuo delle tradizioni militari nazionali o regionali (nel caso dei Lander tedeschi), veri e propri simboli identitari, certamente rimodernati e semplificati nella foggia ma totalmente inutili alla difesa dell’uomo che lo avesse indossato.
Ne erano esempi famosi i tanti tipi di caschi germanici, legati come già detto alla storia dell’arma ed alla regione di appartenenza, tra i quali si potevano trovare sia i semplici berretti circolari sassoni che i più vistosi caschi degli Jager prussiani a tronco di cono ed i Pickelhaube in cuoio nelle loro tante varianti, un modello questo che si avvicinava solo esteticamente, con la sua forma a calotta, ad un elmetto moderno, associazione che tuttavia spariva considerando il vistoso chiodo metallico applicato sulla sommità. La Francia produceva i classici képi in tela, anch’essi di colore rosso vivo, o al massimo coperti con una fodera bluastra e le bustine in panno blu. L’Italia era dotata del berretto in panno grigio-verde con visiera mod. 1909 e del mod. 15, sempre in panno ma di foggia diversa, chiamato “scodellino”. Simili erano i berretti austro-ungarici in panno grigio-azzurro, ai quali si affiancavano modelli diversi a seconda delle nazionalità interne all’impero. La Russia zarista presentava invece un assortimento di colbacchi, cappelli a tesa larga di varie fogge e “bustine”. Nemmeno l’Inghilterra e gli Stati uniti d’America versavano in condizioni migliori, avendo in dotazione un berretto a tesa larga la prima ed il vistoso cappello da ranger o la bustina i secondi. Solo il contatto diretto con la trincea e con i suoi pericoli avrebbe dato una svolta decisiva alla situazione.
Com’è facile immaginare quindi, il primo contatto con la guerra di massa e di trincea fu un trauma rivelatore per tutti: l’enorme numero di ferite al capo registrate fin dalle prime battute riportò alla necessità di tornare all’acciaio come unica soluzione al problema, acciaio caduto in disuso cinque secoli prima per la comparsa, sui campi europei, delle prime armi da fuoco, che avevano reso inutili le pesanti corazzature, le quali, scheggiandosi all’impatto, spesso generavano danni ancor maggiori. Ebbene, nel 1914, proprio lo sviluppo estremo di queste armi costrinse a ritornare all’elmo, il quale, se spesso continuò a rivelarsi inefficace contro i colpi diretti delle armi individuali sparati, molto spesso, a distanza ravvicinata, fu quanto mai necessario per ripararsi dalle piogge di shrapnels, schegge e detriti vari scagliati in aria dalle esplosioni. Erano questi infatti i maggiori fattori di decesso all’epoca, come ben presto i servizi sanitari dimostrarono, calcolando che ben l’80% di ferite riscontrate nei primi mesi di guerra avevano interessato il capo, ma che solo il 20% di queste era causato direttamente da proiettili nemici.
In conseguenza di queste drammatiche scoperte, gli alti comandi cominciarono a sperimentare alcune soluzioni. I primi a proporre un’innovazione in questo senso furono i francesi, per opera del generale Louis Auguste Adrian, il quale progettò una calotta metallica chiamata “cervelliera” da indossare sotto al képi; ne furono prodotte immediatamente ben 700.000 unità, distribuite dal febbraio-marzo del 1915 ma la “cervelliera”, malvista dai soldati, scomoda ed inefficace, non riscosse successo.
Anche l’Italia tentò di soddisfare autonomamente il suo bisogno di elmetti, e lo fece una prima volta presentando il modello “Farina”, ideato dall’omonimo ingegnere. Introdotto a partire dall’ottobre del 1915 e proposto in due varianti, da 2.250 e 1.850 grammi di peso a seconda dell’altezza del parafronte, l’elmo non si rivelò risolutivo: troppo pesante e scomodo (le prime versioni non avevano nemmeno l’imbottitura e dovevano essere portate sopra al berretto o con altri espedienti), la sua produzione, suddivisa in ben cinque pezzi rivettati, non era nemmeno economica ed il modello fu destinato principalmente ai reparti taglia fili, unitamente ad alcune corazze, dimostratesi ugualmente scomode ed inefficaci.
Le prime soluzioni definitive vennero sviluppate tra il finire del 1915 ed il 1916. Il primo a comparire, ed anche il modello che ebbe maggior diffusione tra gli eserciti in guerra, fu il famoso Adrian mod. 1915, progettato dal già nominato generale francese e introdotto alla metà del 1915 (e subito dopo acquisito anche dall’esercito sabaudo). Il pezzo in questione era un elmetto in acciaio dolce di circa 750 g di peso, dall’aspetto gradevole, composto da quattro pezzi uniti da rivetti e coppiglie dello spessore di 0.7 mm, pezzi che costituivano la calotta, la visiera, i coprinuca e la crestina che riparava il foro d’areazione. Dettaglio quasi incredibile, il mod. 15 non era stato sottoposto a test balistici prima della sua adozione; tuttavia le prove sul campo vennero ritenute sufficientemente soddisfacenti, nonostante una certa fragilità e la frequente tendenza delle componenti a staccarsi in seguito ad impatti laterali particolarmente violenti. Durante gli anni seguenti, per ovviare a questi problemi, vennero sperimentati altri modelli ed alcune maschere facciali aggiuntive, tutte ricerche rimaste per lo più allo stadio di prototipi, salvo per la maschera Dunand, del 1918, ed i paraguance Lippmann del 1916, prodotti in pochissimi esemplari
Oltremanica, l’esercito inglese valutò l’opzione di produrre in serie l’Adrian, ma l’eccessiva complessità di produzione e le prove non senza difetti sul campo spinsero gli alti comandi ad adottare un modello proprio, il Brodie (dal nome, ancora una volta, del suo inventore John Leopold Brodie). Questo era di foggia circolare, composto da un unico pezzo d‘acciaio sagomato a scodella, cosa che garantiva una maggior robustezza ed una velocità di lavorazione migliore della concorrenza francese. Una prima versione, in acciaio dolce e con una calotta meno profonda del modello successivo, venne prodotta solo per poche settimane e sostituita con un secondo modello, più profondo e coi bordi più stretti, ma soprattutto più resistente in quanto realizzato con acciaio al manganese. Lo stesso modello venne in seguito adottato dagli Stati Uniti e rimase sostanzialmente invariato fino alla seconda guerra mondiale.
L’Italia acquistò in un primo momento gli Adrian francesi (i soldati italiani combattevano con l’elmetto che riportava le iniziali “RF”, République Française), per poi produrli direttamente, distribuendoli tra l’ottobre e il novembre del 1915. Il volontario triestino Roberto Liebmann, ricevutane una partita per il proprio plotone, scrisse istintivamente: “salvano da tante idiote ferite, specialmente di shrapnels”; una conferma di prima mano della reazione estremamente positiva che i fanti ebbero nel ricevere una difesa, pure minima, per le loro membra. Come già accennato però, il mod. 15 non era privo di difetti e, constatatili, l’esercito progettò e produsse in gran numero il “mod. 16”, che entrò in linea nel 1917 e che sarebbe rimasto l’unico altro tipo in dotazione alle truppe fino alla fine del conflitto, mescolato ai rimanenti mod. 15 e ai pochi “Farina”. La tecnica di produzione e la resistenza erano state migliorate ricavando calotta e visiera-paranuca da un’unica lastra, sempre dello spessore di 0.7 mm, aggiungendo a parte solamente il crestino. Ultimo dettaglio, anche all’Italia vennero fornite le maschere Dunand ed i paraguance Lippmann, anche se con scarsissimo utilizzo.
Tutti i modelli visti fino a questo punto, per quanto diffusi e generalmente ritenuti sufficienti, presentavano però una problematica non indifferente, lasciando infatti scoperta la testa ai lati e costringendo perciò a ricorrere a scomodi accessori. Questa pecca invece non caratterizzò gli elmetti degli Imperi Centrali, in primis il famoso Stahlhem mod. 16, elaborato dal tecnico tedesco Friedrich Schwerd, rivoluzionario in quanto a completezza e praticità e punto di partenza per gli elmetti odierni. Lo Stahlhelm infatti, risolveva i problemi d’efficienza e semplicità produttiva grazie alla lavorazione a “campana” di un’unica lastra dello spessore di 1.1 mm (e quindi più spesso dei modelli alleati) che avvolgeva il capo lateralmente e posteriormente fino al collo (e fino alle spalle, in posizione rannicchiata). A questo andava aggiunta la qualità del metallo impiegato, una lega di acciaio al nickel-cromo che aveva il pregio di non frantumarsi in pericolose schegge se colpito con forza. La Germania adottò l’elmo a partire dalla battaglia di Verdun, nel 1916, e la sua efficacia fu immediatamente percepibile. Nonostante le migliori caratteristiche generali comunque, anche la Germania realizzò una protezione frontale (specialmente per vedette e cecchini) da agganciare alle sporgenze delle prese d’aria laterali, dal peso di circa 2 kg.
L’Austria-Ungheria, similmente a quanto fece l’Italia con il suo alleato francese, adottò immediatamente lo Stahlhelm germanico per le proprie truppe, ma nel 1917 incominciò a produrne una versione propria in alcune varianti chiamate Berndorfer, dal nome dello stabilimento che li fabbricava. Il primo modello Berndorfer venne prodotto dal maggio al novembre del 1917 ed era caratterizzato da una foggia simile al cugino tedesco, salvo per una diversa lavorazione della visiera e l’applicazione di un’unica bocchetta di areazione sulla sommità della calotta (e non ai lati, come nel mod. 16). A partire dalla battaglia di Caporetto venne introdotto un secondo modello, più simile ancora a quello tedesco nella forma della visiera, per la quale è conosciuto come “paperino”. Anche questo fu tuttavia soppiantato presto dall’ultima serie, più economica e esteticamente identica in tutto all’elmetto tedesco, un modello che venne prodotto fino alla fine del conflitto ed equipaggiato a volte con le stesse corazzature frontali dell’alleato.
Quanto l’elmetto sia stato fondamentale per gli eserciti delle potenze e che importanza, anche psicologica, questo ebbe in quegli anni terribili è ancora oggi dimostrato dall’iconografia bellica. Meno legato alle antiche tradizioni militari nazionali, tradizioni del resto obsolete e cancellate dall’anonima guerra di massa, divenne ben presto uno se non il primo simbolo distintivo delle moderne forze armate europee, sempre ritratto e scolpito nelle effigi e nei monumenti alla vittoria ed ai caduti, che non presentano più o quasi, comprensibilmente, i vari copricapi del 1914.
Il suo ruolo essenziale, sia pratico che simbolico appunto, spicca ancor più in quella moltitudine di immagini allegoriche e celebrative (mi sto riferendo in particolare al caso italiano) nelle quali il fante appare spoglio, nel vero senso del termine, di tutto il superfluo, col petto nudo, i calzoni, le giberne e l’elmo d’acciaio calcato in testa.
di Francesco Zardini
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