Un lavoro cinematografico sul quale molto si è scritto e detto, ma che ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla sua uscita, mantiene tutta la sua attualità: questo è La Grande Guerra, il film che Mario Monicelli girò nel 1959 per buona parte in Friuli.
Il regista, fresco del successo dei Soliti Ignoti, si trovò con questa pellicola ad affrontare un tema molto spinoso, almeno nell’immaginario italiano, ovvero la prima guerra mondiale. Fino a quel momento, infatti, la cinematografia nostrana aveva trattato questo fenomeno storico come fosse un tabù o, meglio ancora, facendo ricorso ad una sorta di retorica apologia, indubbiamente influenzata dai governi in carica. Monicelli offrì invece un punto di vista completamente diverso, mettendo al centro della narrazione non generali o eroi di comodo, ma gente comune, i figli di un’Italia ancora socialmente, politicamente divisa, che si riunì per la prima volta proprio a causa del conflitto.
La struttura del film si articola in vari episodi, ambientati nel 1917 ed introdotti ciascuno da un commento musicale dell’epoca (canzoni alpine), accorgimento che dà allo spettatore un notevole senso di coinvolgimento. Oltre a Mario Monicelli, parteciparono alla sceneggiatura del film Luciano Vincenzoni, Age e Scarpelli, mentre della produzione si occupò Dino De Laurentiis, che ebbe non poche difficoltà nella realizzazione del progetto, visto l’ostruzionismo di alcuni sindaci dei luoghi delle riprese. Fu solo dopo la minaccia di girare nella ex Jugoslavia che il ministero della Difesa diede il nulla osta. L’autore delle musiche era Nino Rota, uno dei più grandi compositori di colonne sonore, che sarà poi nel 1975 vincitore del premio Oscar con Il Padrino-parte seconda.
I protagonisti sono il milanese Giovanni Busacca, interpretato da Vittorio Gassman, e il romano Oreste Jacovacci, interpretato da Alberto Sordi. I due costituiscono la metafora cinematografica del Paese al fronte, ovvero un Paese che parla in dialetto e i cui cittadini diffidano campanilisticamente gli uni degli altri. Gli stessi protagonisti all’inizio si trovano su un piano di ostilità, che col tempo diventerà amicizia, anche a seguito delle numerose prove che affrontano durante il conflitto e che supereranno assieme. Ancora, essi non mirano alla gloria, né propria né del Paese, ma pensano piuttosto a sopravvivere agli eventi. I due non potrebbero essere più diversi: arrogante e spavaldo il primo, mite e timoroso il secondo, e nella pellicola sono la spalla ideale l’uno dell’altro. Pellicola che alla sua uscita fu considerata un azzardo e suscitò anche qualche polemica tra i critici, per l’insolita mescolanza di commedia e dramma, ma successivamente ottenne un grande successo tra il pubblico, sia in Italia che all’estero, tanto da venir candidata all’Oscar come miglior film straniero. Pur non vincendo l’ambita statuetta, il film si aggiudicò il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia, oltre a due Nastri d’argento e tre David di Donatello con cui furono riconosciuti i meriti degli attori.
Il film spicca inoltre per un’accurata ricostruzione storica. Il regista infatti fu molto attento a ricreare nel dettaglio l’ambiente bellico del 1916-17 e, a differenza di molti suoi colleghi che preferivano girare nei teatri di Cinecittà, Monicelli utilizzava delle location nei pressi delle quali la guerra era stata effettivamente combattuta. Portò così la troupe in Friuli, a Sella Sant’Agnese vicino Gemona (dove oggi un cartellone nei pressi della chiesetta illustra alcune scene del film), a Venzone, Palmanova e a Nespoledo di Lestizza, facendo percepire allo spettatore tutta l’asprezza del territorio dove effettivamente si era svolto il conflitto.
Il rapporto tra il regista ed il Friuli non si interruppe con questo film. Infatti nel 1984 Monicelli vi girò alcune scene di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno e nell’estate 2004 tornerà sui vecchi set de La Grande Guerra nel corso di un viaggio, che sarà raccontato da Gloria De Antoni nel documentario I sentieri della gloria.
Oltre ai due protagonisti, risalta nel film la presenza di Silvana Mangano nel ruolo di Costantina, prostituta del luogo, della quale Busacca/Gassman si innamora ricambiato solo verso la fine, quando ormai il precipitare degli eventi li separerà. E proprio a questo precipitare di eventi si assiste nell’ultima parte dellapellicola dove, pur non essendo direttamente trattata, si vede la trasformazione dell’Italia dopo Caporetto. Il nemico passa da aggredito ad aggressore e il Paese, dopo aver provato le difficoltà della rotta e dell’occupazione, ritrova lo scatto d’orgoglio per la vittoria finale. Vittoria ottenuta a caro prezzo, come metaforicamente viene proposta attraverso la fine dei protagonisti. Catturati dagli austriaci e accusati di essere spie, vengono minacciati di fucilazione, a meno che non rivelino ai propri carcerieri l’ubicazione di un ponte di barche di grande importanza strategica. I due, per aver salva la pelle, stanno per confessare, salvo poi ritrattare in seguito ad una denigrazione di un ufficiale austro-ungarico. Vengono così entrambi fucilati, morendo uno da eroe spavaldo e l’altro da eroe vigliacco, ma con uno scatto d’orgoglio e con una dignità che prima sembravano perduti. Nota finale che aumenta l’intento dissacrante dell’opera, nelle ultime scene vengono come “calpestati” dall’avanzata dei bersaglieri nella battaglia finale ed il loro sacrificio non sarà valorizzato, ma anzi saranno tacciati di essersi imboscati per l’ennesima volta.
Un sacrificio, il loro, come quello di centinaia di migliaia di giovani italiani, troppo spesso sottostimato oppure sfruttato unicamente per fini di propaganda, probabilmente ignorando che una delle più grandi battaglie di quei soldati era proprio la disperataricerca della sopravvivenza, pur essendo circondati da un’atmosfera di morte. Forse il messaggio più importante che questo film trasmette, è che si può essere eroi, anche se con molte debolezze e mancanze, perché la vera vittoria (magari del tutto utopistica) in una guerra è quando l’umanità prevale sulle logiche del conflitto.
di Roberto Crosilla
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