Entrando in Palazzo Gopcevich, venerdì 13 maggio dalle ore 18 si veniva accolti da una serie di arrangiamenti jazz dell’Orchestra Laboratorio 4.0 del Conservatorio G. Tartini che proiettavano all’interno della mostra di Artefatto 2016. Il palazzo affacciato su Ponte Rosso ospitava l’inaugurazione dell’XXI edizione di Artefatto che proponeva le opere di 40 artisti selezionati tra 132 giovani che avevano risposto al bando di concorso 2016. Quest’anno, il tema della mostra è la rappresentazione di se stessi nell’epoca dei selfie.
Artefatto organizza un insieme di eventi con l’obiettivo di puntare sui giovani: quest’anno l’inaugurazione proponeva un programma molto ricco che ha coinvolto i giovani fin dall’organizzazione. Gli artisti esposti, tutti under 31, avevano il compito di interpretare il tema ITSME che invitava ad indagare in termini più generali –non solo attraverso media digitali- la necessità dell’uomo di presentarsi all’esterno, di auto-rappresentarsi e di relazionarsi con gli altri nell’epoca contemporanea.
Siamo riusciti ad intervistare alcuni degli artisti esposti.
Davide D’Addario ha 25 anni, è nato a Pescara dove ha frequentato l’Università “Gabriele d’Annunzio” con indirizzo lettere. Ha studiato presso l’Accademia delle Belle Arti de l’Aquila e il Leeds College of Art. È stato selezionato da Artefatto con Self-Portrait.
Come è stato partecipare Artefatto?
Per me è la seconda volta ad Artefatto e come l’anno scorso mi sono trovato molto bene: è un evento unico che dà la possibilità di conoscere giovani artisti e curatori coi quali confrontarsi. L’organizzazione è eccellente e curata nei particolari.
Quello che mi ha colpito della tua opera è che hai presentato un “autoritratto vuoto”. Come ti è venuto in mente visto che viviamo in una realtà in cui tutti vogliono apparire e mostrarsi agli altri?
Ammetto che pensavo che non sarei stato selezionato e per questo sono piacevolmente colpito. Comunque, l’idea mi è venuta visitando la Walker Art Gallery di Liverpool dove ero andato a vedere un lavoro di Rosso Fiorentino che però mancava a causa di interventi di restauro. Il punto, per me, era fare un lavoro sull’autoritratto che però non cadesse in un cliché. In generale lavoro su ciò che non c’è o non si vede e, infatti, nella descrizione del lavoro è riportata la dicitura “olio su tela” nonostante sia una stampa. Il lavoro è e resta una mancanza: il ritratto immaginario che non c’è.
Damiano Fina, classe 1990, è nato a Vicenza ed è un artista che esplora l’illusoria contraddizione tra squilibrio ed equilibrio. Nel 2015 ha fondato un progetto artistico FÜYA che si basa sulla sua ricerca Presence Writing. Artefatto l’ha scelto con la fotografia ME (I am but I do not have myself).
Com’è stato partecipare ad Artefatto?
Ho trovato Artefatto un progetto molto ben curato. Sono rimasto piacevolmente colpito dallo staff della mostra: sia le organizzatrici sia i giovani ragazzi che hanno collaborato all’allestimento hanno trasmesso l’impegno e la passione che sicuramente hanno permesso di arrivare con entusiasmo all’11° edizione. Davvero utile l’incontro con i galleristi e lo scambio di esperienze con gli altri artisti in mostra.
Perché la tua opera si chiama ME (I am but I do not have myself)?
Sono molto interessato alla relazione tra essere e possedere se stessi. Esistiamo ma abbiamo bisogno degli altri per avere una visione di noi stessi, forse addirittura per avere coscienza di un’esistenza. Da qui inizia la riflessione del progetto I am but I do not have myself.
Hai esposto delle fotografie, fatte da alcune tue amiche, che rappresentano vari ritagli del tuo corpo: sono state loro ad aver scelto quali parti fotografare o sei tu ad aver selezionato dei frammenti pensando a quali potessero descriverti meglio?
Ho chiesto a due grandi amiche di farmi vari scatti, cercando la mia essenza. La cosa più interessante è che dopo tanti anni d’amicizia si crea un’alchimia che permette di conoscere i pensieri dell’altro: intuire cosa si sta ricercando, cosa si prova e come si andrà ad agire. Abbiamo selezionato 12 scatti, sapendo con certezza quali sfumature avremmo voluto evidenziare.
Questa è solo una parte del tuo lavoro I am but I do not have myself, hai già in mente qualcosa per il futuro?
Il progetto si suddivide in tre fasi. La seconda comprende una serie di azioni collettive dove sviluppo il concept I am but I do not have myself attraverso workshop performativi in natura registrando e collezionando le impressioni dei partecipanti. Alla fine di questo percorso realizzerò con 20 coppie la performance finale Mewe.
Sul mio sito Damiano Fina presto aggiornerò anche il progetto I am but I do not have myself.
Eleonora Tanucci è nata 26 anni fa a San Benedetto del Toronto ed è laureata all’Accademia delle Belle Arti di Macerata. Ha esposto l’installazione Do ut des.
Com’è stata la tua esperienza con Artefatto?
Fantastica: un’ottima organizzazione con persone super in gamba e alla mano. È stata veramente una bella esperienza!
Se penso al tema, IT’S ME, ma soprattutto se rifletto sul mondo egoista e superficiale in cui viviamo -e che può essere sintetizzato con i social network- non avrei mai pensato ad un’opera che spinge alla condivisione. A te come è venuto in mente questo tema e cosa ti ha spinto a sviluppare quest’installazione?
Mi è venuto in mente proprio perché oggi non c’è alcun tipo di scambio: capita molto raramente di instaurare rapporti dove l’altro è una fonte da cui apprendere e prendere. Mi divertiva, quindi, che attraverso un’istallazione le persone potessero creare legami non con le persone ma con i loro oggetti. È stata anche una prova per vedere in quanti sarebbero stati curiosi. Inoltre sono un’accumulatrice di oggetti cui sono collegati dei ricordi e, in un colpo solo, ho deciso di donarli. Forse una follia!
Le opere di pittura, fotografia, scultura accanto a video, animazioni e installazioni interattive saranno esposte nella Sala Selva di Palazzo Gopcevich fino al 5 giugno 2016.
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