Il 4 dicembre il Teatro degli Orrori (gruppo veneto alternative-rock sulla scena dal 2005) si è esibito in concerto a Trieste al Teatro Miela, una delle tappe del loro Live Tour 2015 in Italia per l’uscita del nuovo album omonimo.
Mentre li aspettiamo per un’intervista vediamo entrare i primi componenti del gruppo e c’è un po’ di agitazione mentre in sottofondo si sentono le note dei Pink Floyd per provare le attrezzature. Ci sediamo su delle sedie nel bar per fare una chiacchierata, tutto sembra essere pervaso da musica. I colori bui fanno pensare che questa è la location perfetta per un concerto de Il Teatro Degli Orrori.
Pierpaolo (voce) non è ancora arrivato e così anche il batterista Franz Valente. Stringo la mano a Giulio (Giulio Ragno Favero, basso), Gian (Giornata Mirai, chitarra) e Marcello Batelli, seconda chitarra. Poi parte l’intervista
Il panorama e il pubblico che ascolta musica indipendente per un gruppo che ha 10 anni di esperienza è cambiato?
«Vedo i nostri tour un po’ invecchiati» risponde Giulio, con un po’ di amarezza, «il pubblico è più grande rispetto agli inizi, anche se qualche anno fa abbiamo avuto grande affluenza di pubblico un po’ più giovane e soprattutto nelle prime file c’erano molti under 18 e 21» Fenomeno che poi si è ridimensionato, secondo lui, tornando ad avere a che fare con un pubblico più verso i 30 che i 20. «Di conseguenza, ci sono anche meno cellulari volanti e c’è più attenzione e questo è bello”, corregge il tiro Giulio, “attenzione che è più apprezzabile.» (Per la verità Gian e Giulio non ci hanno visto molto bene, infatti, al concerto le prime file erano piene di 20enni urlanti e poganti con cellulari ‘’volanti’’ e flash impazziti.)
E a cosa è dovuto questo secondo voi?
«Siamo invecchiati noi prima di tutto», scherza Giulio, «sono cambiati i tempi e mi sembra evidente che il genere che facciamo non va più per la maggiore. Quei pochi che ancora fanno rock a livello mainstream sono 3 o 4 gruppi e sono 20 anni che son là. Questo per quanto rigurda il mondo, perchè il rock in Italia, come si sa,non è mai esistito. A meno che per rock non intendiamo Vasco Rossi…Non c’è nessuno che abbia iniziato in questo secolo a fare rock e scali le classifiche. Non so se sia meglio così, però forse scalare le classifiche non è nemmeno una cosa che ci interessa. Noi facciamo quello che ci sentiamo di fare e non abbiamo mai pensato di doverci piegare al mercato.»
«Infatti quello che ti restituisce il mercato poi non è mai abbastanza, meglio conservarsi ed andare via dritti.» aggiunge Gian.
Una band che non si piega al pubblico, ma un po’ al cliché della band rock di disgraziati, pazzi senza regole. Gian gira una sigaretta e si aggiusta il ciuffo, come fa sempre sul palco, poi accavalla le gambe, la accende e fa un lungo tiro.
Questo album è molto politico, come mai avete deciso di muovervi così tanto all’interno di questo ambito?
«Ogni album riflette noi e la nostra vita privata e quella nella società: noi come cittadini. I temi che trattiamo in questo disco non sono così diversi dai dischi precedenti. L’unica cosa su cui abbiamo virato un po’ è un certo modo di vedere l’amore, infatti, ci sono poche canzoni d’amore. Il momento storico in cui stiamo vivendo probabilmente ha ispirato molto Pierpaolo che si è sentito più in dovere di trattare certi temi in un certo modo rispetto a prima.»
«Quando parli di società parli di politica.» questa è il monito riassuntivo di Gian, che passa immancabilmente le dita tra il ciuffo, facendo un colpo di tosse.
«Pierpaolo ha cercato di semplificare il linguaggio per trasmettere certi concetti in maniera più diretta, meno allegorica.»
Mentre parlano, mi viene alla mente mente il brano Lungo Sonno (lettera aperta al partito Democratico) che fa: “aspettando che cambiasse il mondo o che cambiassi tu, sono cambiato io, e senza accorgermene, adesso sono di destra, un qualunquista qualsiasi, un voltagabbana, altroché boy-scout ! … Non me ne frega più niente è tutta un’ illusione, una pantomima!”
Quindi bisogna ascoltare questo album in maniera diversa?
«No, assolutamente non ci sono delle istruzioni per l’uso, bisogna ascoltarlo come ci si sente. E’ intitolato come il Gruppo perché è il mondo secondo noi.» dice Giulio.
«Dopotutto quello che vediamo fuori è un teatro degli Orrori! Chissà, forse è colpa nostra!», aggiunge Gian scherzosamente.
Voi date molta importanza alle parole, infatti i vostri video sono parole che si susseguono, quando fate un brano partite dall’idea musicale o dalle parole?
«Di solito partiamo dalla musica, poi dipende, per esempio c’era un testo che è rimasto quello anche se è stata implementata la base. Non nascono tutti allo stesso modo. Alcuni sono idee mie, altri sono nati dalla collaborazione di noi cinque. Genova è uno dei pezzi più tremendi del disco. E’ partita come scherzo, ero annoiato perchè mi stavo rompendo le palle sul computer così mi sono detto: Adesso faccio un pezzo che incroci i Messhuggah coi White Stripes. Capita che quando succedono queste cose, poi le faccio ascoltare a loro che mi dicono “Boia boia che figata!” Pierpaolo ci mette il testo sopra e ti rendi conto che diventa qualcosa di grande, partito quasi come un gioco.»
Vi è mai capitato di dover fare un passo indietro per permette che l’interpretazione del pubblico fosse più vicina a quella da cui eravate partiti voi?
«Guarda, se c’è una cosa che sta sulle palle a Pierpaolo è descrivere quello di cui parla la canzone perché sostanzialmente ognuno deve trovarci quello che vede, la propria miniera. La politica di fatto è la vita di tutti, anche di chi lo ignora: paletti o passi indietro non li faremo mai.»
Poi Giulio cita un libro del controverso regista David Lynch in cui il regista dice che ci sono sono un sacco di persone che fanno studi sulle scene dei suoi film, quando lui va, a detta sua, ‘’totalmente a caso’’.
«Lo spazio interpretativo è soggettivo, non è detto che per forza tu debba provare la mia stessa sofferenza ma deve esserci un ascolto attivo e soprattutto soggettivo.», dice Gian.
Alle 22 è iniziato il concerto che è andato avanti per due ore e mezza: tra quei ragazzi under 20, poganti ed urlanti nelle prime file che sventolavano i cellulari c’ero pure io. Tra gente che sale sul palco e ruba il microfono, Gian che avrà fumato almeno una ventina di sigarette e si sarà aggiustato il ciuffo almeno il doppio delle volte, come ad ogni concerto rock che si rispetti, la follia aleggiava in grande quantità.
Ed anche se all’inizio vi sembrerà che Pierpaolo stia continuamente parlando al pubblico senza mai cantare, dopo un po’, vi assueferete alla sua voce e «non ne potrete più fare a meno, diventa una droga!’’ come mi ha detto un’ euforica ragazza in prima fila vicino a me.
di Elisa Casciaro
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